venerdì 16 novembre 2007

Genova per noi,Genova per Tutti,Genova per Carlo


Ricominciare da Genova
Marco Revelli
Genova 2001, Genova 2007. Sono passati più di sei anni da allora, e l'Italia che abbiamo di fronte è irriconoscibile. Isterica e avvelenata. Servile e violenta. Sempre sull'orlo di una crisi di nervi, e contemporanemente soffocata da un conformismo dilagante, con un sistema dell'informazione insieme emotivo e cinico. E con una politica insieme arrogante e impotente: tanto più arrogante nel decisionismo emergenziale, nel suo operare con gesti simbolici estremi, quanto più impotente nella ricerca di soluzioni efficaci. Le ultime settimane ce ne hanno offerto un esempio sconcertante: l'immagine di un'Italia imbarbarita, persino più decomposta di quella che era stata mostrata al mondo dal set globale del G8, perché allora, dietro la maschera ufficiale, si poteva intravvedere la promessa - anzi, qualcosa di più, l'embrione - di un'altra Italia. Che nella propria ribellione sa di incarnare il futuro, mentre quello di oggi quel futuro non lo sa più immaginare, seppellito sotto uno strato denso di rancore e accettazione.
Quest'Italia brutta, moralmente logorata, per molti versi irredimibile è anche figlia di Genova. Del modo con cui a Genova quell'embrione di un'altra Italia è stato schiacciato a colpi di blindati e manganelli. Figlia degli spari impuniti di piazza Alimonda, della mattanza impunita della Diaz, delle torture impunite di Bolzaneto. Un paese non può archiviare tutto ciò come «normalità», senza perdere se stesso. Senza naufragare nel cinismo e nel conformismo.
Allora migliaia di adolescenti, una nuova generazione con la freschezza e l'innocenza degli inizi si affacciò - insieme alla gran massa degli altri, con le proprie storie più lunghe - sulla scena pubblica immaginando un «mondo diverso possibile». Fu accolta dallo Stato con le sevizie fisiche e morali dei manipoli di squadristi in divisa. Oltraggiata. Sottoposta all'umiliazione estrema degli insulti e dei soprusi più osceni (il crimine peggiore che una nazione può commettere contro se stessa). Mentre il vicepremier di allora sedeva in cabina di regia, e il ministro della Giustizia si aggirava nella vicinanze a legittimare i soprusi. Né, quando il governo è cambiato, quando gli «altri» sono giunti al potere, il quadro è mutato: il principale responsabile, l'allora capo della polizia, è stato promosso. Sugli abusi degli apparati dello Stato sono stati chiusi gli occhi. E oggi il Ministero degli Interni si costituisce in giudizio nei confronti dei manifestanti incriminati, per il danno d'immagine prodotto, anziché contro quei funzionari pubblici e quegli uomini di governo che hanno squalificato l'Italia di fronte al mondo civile.
Allora, mentre sfilavamo in corso Italia, non sapevamo che neanche due mesi più tardi ci saremmo trovati di fronte all'abisso inaugurato dall'11 settembre. Oggi sappiamo che ci aspettano anni durissimi, di sfaldamento sociale, di caduta, e di veleni, in cui il futuro dovremo strapparcelo a morsi. Per questo, a Genova, dovremo ritornare in tanti. Per ricominciare. Senza più illusioni. Sapendo di dover contare solo su noi stessi.

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