domenica 25 novembre 2007

Un pasticciere trotzkista

Nella settimana di Renzo Piano,Fuksas e Nanni Moretti,un omaggio al Direttore del Torino Film Festival...

domenica 18 novembre 2007

C'è un Popolo che cammina



C'è un popolo che cammina lungo lo stivale,che passa per Genova,Vicenza,Roma e la ValSusa.C'è un sentimento,una sensazione di pienezza che ti scalda quando arrivi in piazza e che cancella ogni stanchezza.
Non sono solo,c'è un popolo che cammina assieme a me e mi accompagna in un percorso collettivo ed individuale.
I diritti negati,le verità nascoste,la voglia di sfilare per ricostruire questo Paese o per limitarne la sua demolizione.
C'è un popolo che cammina,sogna e s'incazza,macina chilometri e accumula freddo.
Gli sguardi e i sorrisi di questo popolo che cammina tendono ad assomigliarsi,ci sono facce che ti sembra ricorrano in qualunque luogo.
C'è un popolo che cammina in una marcia senza confini,lungo le strade delle ingiustizie.
C'è un popolo che cammina lungo lo stivale e con questo popolo voglio continuare a marciare,non solo per un fatto di nome o di simboli,per un fatto di cuore.
C'è un popolo che cammina e quel popolo è la Sinistra.

venerdì 16 novembre 2007

Genova per noi,Genova per Tutti,Genova per Carlo


Ricominciare da Genova
Marco Revelli
Genova 2001, Genova 2007. Sono passati più di sei anni da allora, e l'Italia che abbiamo di fronte è irriconoscibile. Isterica e avvelenata. Servile e violenta. Sempre sull'orlo di una crisi di nervi, e contemporanemente soffocata da un conformismo dilagante, con un sistema dell'informazione insieme emotivo e cinico. E con una politica insieme arrogante e impotente: tanto più arrogante nel decisionismo emergenziale, nel suo operare con gesti simbolici estremi, quanto più impotente nella ricerca di soluzioni efficaci. Le ultime settimane ce ne hanno offerto un esempio sconcertante: l'immagine di un'Italia imbarbarita, persino più decomposta di quella che era stata mostrata al mondo dal set globale del G8, perché allora, dietro la maschera ufficiale, si poteva intravvedere la promessa - anzi, qualcosa di più, l'embrione - di un'altra Italia. Che nella propria ribellione sa di incarnare il futuro, mentre quello di oggi quel futuro non lo sa più immaginare, seppellito sotto uno strato denso di rancore e accettazione.
Quest'Italia brutta, moralmente logorata, per molti versi irredimibile è anche figlia di Genova. Del modo con cui a Genova quell'embrione di un'altra Italia è stato schiacciato a colpi di blindati e manganelli. Figlia degli spari impuniti di piazza Alimonda, della mattanza impunita della Diaz, delle torture impunite di Bolzaneto. Un paese non può archiviare tutto ciò come «normalità», senza perdere se stesso. Senza naufragare nel cinismo e nel conformismo.
Allora migliaia di adolescenti, una nuova generazione con la freschezza e l'innocenza degli inizi si affacciò - insieme alla gran massa degli altri, con le proprie storie più lunghe - sulla scena pubblica immaginando un «mondo diverso possibile». Fu accolta dallo Stato con le sevizie fisiche e morali dei manipoli di squadristi in divisa. Oltraggiata. Sottoposta all'umiliazione estrema degli insulti e dei soprusi più osceni (il crimine peggiore che una nazione può commettere contro se stessa). Mentre il vicepremier di allora sedeva in cabina di regia, e il ministro della Giustizia si aggirava nella vicinanze a legittimare i soprusi. Né, quando il governo è cambiato, quando gli «altri» sono giunti al potere, il quadro è mutato: il principale responsabile, l'allora capo della polizia, è stato promosso. Sugli abusi degli apparati dello Stato sono stati chiusi gli occhi. E oggi il Ministero degli Interni si costituisce in giudizio nei confronti dei manifestanti incriminati, per il danno d'immagine prodotto, anziché contro quei funzionari pubblici e quegli uomini di governo che hanno squalificato l'Italia di fronte al mondo civile.
Allora, mentre sfilavamo in corso Italia, non sapevamo che neanche due mesi più tardi ci saremmo trovati di fronte all'abisso inaugurato dall'11 settembre. Oggi sappiamo che ci aspettano anni durissimi, di sfaldamento sociale, di caduta, e di veleni, in cui il futuro dovremo strapparcelo a morsi. Per questo, a Genova, dovremo ritornare in tanti. Per ricominciare. Senza più illusioni. Sapendo di dover contare solo su noi stessi.

mercoledì 7 novembre 2007

A Nicola Calipari



Ricevo e pubblico la lettera ricevuta da Rosa Villecco Calipari,a pochi giorni dalla decisione di prosciogliere l'omicida di Nicola Calipari agente segreto italiano ucciso da soldati statunitensi in Iraq, nelle fasi immediatamente successive alla liberazione della giornalista de il Manifesto Giuliana Sgrena.


Caro Luca
scusandomi del ritardo con il quale ti rispondo, per prima
cosa voglio dirti "GRAZIE".

Grazie perché, anche te, come molti italiani condividi la
mia posizione e la mia battaglia di legalità
internazionale, di tutela dei diritti umani e di giustizia.
Ancora una volta, come già due anni e mezzo fa, riscopro
attraverso la partecipazione di tanti, che il nostro Paese
è meno crudele, cinico e distratto di quanto il dolore
rinnovato di questi giorni mi spinga credere. Esiste uno
stupore maggiore anche della stessa arroganza
dell'ingiustizia ed è quello di riscoprici in tanti.

Quello che è successo il 25 ottobre in quell'aula del
Tribunale di Roma non riguarda più solo la famiglia
Calipari, ma l'Italia. Credo infatti che tutto il nostro
Paese abbia perso qualcosa, anzi per meglio dire ha
rinunciato a qualcosa, alla propria sovranità; ha
rinunciato non soltanto a processare l'esecutore materiale
dell'assassinio di un uomo che ha dato la vita al servizio
del Paese, ma anche ad affermare la propria autonomia sul
piano internazionale.

Dalle voci di amici vecchi e nuovi arriva l'invito a non
mollare. Sono stati momenti difficili, ma oggi anche di
fronte alla grandezza dell'impegno, non voglio cedere il
passo all'incertezza o alla sfiducia. E non lo farò. Siamo
delusi, scoraggiati, indignati ma con la speranza di credere
che non può essere tutto perduto.

Grazie ancora perché il sostegno e la vicinanza delle tue
parole che è arrivato a me, alla mia famiglia e alle
persone che con me lavorano, è grande ed un motore enorme
per quella faticosa ma indispensabile ricerca della
verità, della giustizia, della pace.

Con sincera cordialità e amicizia

Rosa Villecco Calipari

martedì 6 novembre 2007

Giro di vite


In questi giorni assurdi di rabbia e follia italiana rispolvero il testo di una bella canzone dei Modena City Ramblers...molto attuale.

Nella speranza che si possa al più presto riportare l'Italia ad essere un Paese civile in cui valga la pena crescere e vivere e in cui non aver paura dei tanti diversi che ci circondano.

E' cominciato il silenzio ai bordi della Milano da bere
tra i padri di famiglia coi loro bot e le loro mercedes
timorati di Dio e delle tasse, elettori di Craxi e dei suoi
spaventati di perdere tutto se qualcuno li avesse sorpresi

è continuato a Pontida in un grido di rabbia e paura
di geometri con lo spadone, di dentisti con l'armatura
decisi a difendere il Patrol e la villetta sulla tangenziale
le nigeriane sui viali e la loro evasione fiscale

Hey-oh stanno arrivando armati di spranghe e luoghi comuni
non lasceranno che niente cambi, c'è un giro di vite in arrivo

Eh-oh attento alle spalle a dove e con chi vai in giro la sera
a quello che dici ai sogni che fai
c'è un giro di vite in arrivo

e adesso è come un'onda, un'onda nera e appiccicosa
che cola dalle TV e dai settimanali rosa
che uccide i nostri pensieri, che ci droga di calcio e sesso
e intanto chi tira le fila insabbia e corrompe e non ha mai smesso

e quindi devi decidere cos'hai intenzione di fare
rimanere in riva al Lough Derg a vedere le fate danzare
oppure seguirmi a Carlow e andare incontro al nostro destino
una guerra che non si può vincere e una stella a guidare il cammino

Hey-oh fai la tua scelta,
c'è già chi è partito e chi ha rinunciato
che la fortuna sia con tutti loro,
c'è un giro di vite in arrivo
Eh-oh la resa dei conti,
se hai delle carte giocale e spera
ma stai attento, il gioco è truccato,
c'è un giro di vite in arrivo...
La resa dei conti è in arrivo

sabato 3 novembre 2007

NON GRATTIAMO IL CIELO DI TORINO



Per chi non avesse ancora votato ricordo che sono ancora aperti i sondaggi su
REPUBBLICA e su STAMPA
Inoltro un documento interessante dal Comitato non grattiamo il cielo di Torino
cieloditorino@libero.it
Un grattacielo a Torino: perché ?

Il Comitato “Non grattiamo il cielo di Torino” con questo documento propone un approfondimento sulla costruzione del grattacielo Intesa-San Paolo, per avviare una discussione che, come ha auspicato il sindaco Sergio Chiamparino, non sia “ideologica”. La domanda a cui si vuole rispondere è se la città ha bisogno di un grattacielo di circa 200 metri per concentrare circa 50.000 metri quadri di uffici per 3.000 impiegati, costruito a pochi passi dal centro storico. Proviamo a vedere uno per uno i principali problemi.

Il progetto.

Vincitore di una consultazione voluta da Intesa-San Paolo tra sei studi di progettazione di fama internazionale, il grattacielo in vetro di Renzo Piano è un’opera che può apparire affascinante: nei rendering e nei modelli appare leggera, aerea, dotata di numerosi servizi per il pubblico, di verde. Tuttavia si sa poco di cosa sarà effettivamente. Dai disegni presentati emerge un parallelepipedo a pianta rettangolare con una doppia pelle in vetro, spazi pubblici e un auditorium ai primi livelli, una terrazza alla sommità con zone verdi sospese e tanti piani per uffici. L’altezza risulterebbe di 176,70 metri che arrivano a metri 218,25 considerando le “vele” fotovoltaiche (esclusa l’antenna), tuttavia una modifica urbanistica ancora non aprovata autorizzerebbe un’altezza indefinita. Il progetto prevede inoltre 5 piani interrati di cui 4 a parcheggio, ma forse gli stessi saranno ridotti a 2 piani con un numero di parcheggi non ancora definito. Se fossero 200-300 posti, vuole dire che se le auto che vi si dirigono viaggiassero contemporaneamente formerebbero una colonna di almeno 2-3 chilometri. Si parla di un progetto “immerso nel verde”, ma si tratta del piccolo giardino di fronte al tribunale già in parte su soletta e che sarà ulteriormente ridimensionato.

Il luogo e il tema della densità.

L’area prevista, corso Vittorio, angolo corso Inghilterra, è sita sul confine ancora percepibile tra la città tardo ottocentesca compattata delle nuove edificazioni del secondo dopo guerra e le aree più diradate, destinate un tempo a servizi: le Officine Grandi Riparazioni delle ferrovie, le carceri, il foro boario, le caserme. Un’area sulla quale la Città ha costruito il greve edificio del nuovo tribunale e ipotizzato di avviare una nuova centralità, destinata alla conoscenza e alla cultura. Questo processo però sta procedendo in modo del tutto incoerente: su corso Peschiera, angolo corso Ferrucci è stata insediata una centrale di teleriscaldamento, il raddoppio del Politecnico prosegue in modo incontrollato con una edilizia da autostrada, il progetto di Mario Bellini per la biblioteca e auditorium è in attesa di finanziamento, la nuova edilizia residenziale circostante è desolante nella sua banalità costruttiva, soltanto in parte riscattata dalle nuove residenze universitarie di via Borsellino. Per i suggestivi grandi spazi delle OGR e delle carceri è difficile trovare un riuso sostenibile, dal punto di vista economico e architettonico. Analogamente risulta vuoto il grattacielo della Rai a Porta Susa e altri spazi a Torino sono sotto utilizzati (Italia ’61, Torino Esposizioni e alcune delle stesse opere olimpiche). Dunque per un’area così difficile avrebbe senso avviare una paziente opera di ricucitura, con attenzione agli spazi verdi, di relazione, ai percorsi pedonali e ai servizi per la didattica e la ricerca, piuttosto che concentrare in un solo luogo funzioni e spazi.

Il paesaggio storico.

Le strade e le piazze di Torino hanno una relazione visiva con le montagne e con la collina: l’arco alpino è percepibile a 270 gradi con punte montane visibili superiori ai 3000 e 4000 metri. Questo paesaggio di straordinaria qualità, riscoperto con le olimpiadi invernali, si è consolidato soprattutto tra XVII e XIX secolo. Le sistemazioni barocche hanno disegnato la città in continuità con le maglie quadrate di origine romana e hanno creato prospettive visive straordinarie tra la zona di comando (piazza castello) e la corona delle residenze reali di Superga, Rivoli, Venaria e Stupinigi. Le espansioni eclettiche hanno continuato la maglia e gli assi viari preesistenti introducendo tagli diagonali funzionali ad una città più grande ed efficiente. Questo sky line unico si è conservato nel tempo connotato dalle guglie dei campanili e dalla mole antonelliana. A differenza di questi segni la poco amata torre littoria e i (piccoli) grattacieli del centro, realizzati nel periodo della speculazione postbellica, sono sempre stati ritenuti il prodotto di scarsa cultura e sensibilità urbanistica. Soltanto recentemente si sta procedendo a trasformazioni urbane che non tengono conto della trama viaria storica e del rapporto con il paesaggio tra cui alcune torri in periferia (spina 3) con esiti urbanistici ed architettonici concordemente ritenuti infelici. La torre di Renzo Piano andrebbe a costituire un ulteriore elemento di disturbo del paesaggio, molto più pesante di quello della torre littoria, sarebbe visibile da tutti i grandi assi viari della città, addirittura da piazza Castello, attraverso via Pietro Micca, e si collocherebbe nell’ambito del cannocchiale visivo che unisce Superga con Rivoli per circa 15 km: la più lunga prospettiva barocca esistente!

La questione urbanistica.

L’idea di costruire alcune torri a Torino ha la sua radice recente nel piano regolatore di Vittorio Gregotti e Augusto Cagnardi, approvato nel 1995. Lo studio milanese proponeva alcuni edifici a torre, comunque non più alti di 70 metri, come identificazione del nuovo asse viario, la “spina” centrale, nell’ambito di un disegno urbano complessivo: uno a spina 1, due identici e simmetrici, in prossimità di porta Susa, e quattro su spina 4. Con la variante approvata nel 2006, durante le Olimpiadi, nella distrazione generale salvo alcune associazioni ambientaliste, l’altezza veniva autorizzata fino a 150 metri. Ora c’è una proposta di variante di ulteriore elevazione… senza limiti. Nel rincorrersi delle notizie sulle possibili collocazione delle torri, tra cui quella di Fuksas per la Regione Rimonte prima prevista su spina 1 e ora sull’area Fiat Avio, si è arrivati all’attuale soluzione che appare slegata rispetto ad un piano urbanistico complessivo, con una torre molto alta accanto ad un’altra (forse quella del costruttore Ligresti) più piccola, disassata e tipologicamente diversa. La logica sembra essere quella di avviare una proliferazione di torri in funzione di una “messa a reddito” del territorio, per ricavare diritti edificatori, indipendentemente da considerazioni di disegno urbano e di responsabilità sociale.

Un nuovo simbolo per la città o per qualcuno?

Un edificio di queste dimensioni rischia di diventare inevitabilmente un simbolo emblematico della città, almeno fino a quando un altro soggetto non ne dovesse realizzare uno maggiore. Concedere a un soggetto privato un ruolo del genere è un privilegio straordinario. Dubitiamo che ci sia un generale interesse pubblico a concedere a Intesa San Paolo questo privilegio. Persino a Milano le grandi imprese che realizzeranno i grattacieli non avranno una simile autorappresentazione. E ancora: proprio nel momento in cui il sistema bancario mondiale è scosso dal tracollo della terza più importante banca americana, nel momento in cui il sistema del credito all’acquisto immobiliare è tra le cause dell’instabilità economica internazionale, e da per tutto si tagliano i posti di lavoro e si chiudono sportelli, è in simbolo bancario che la città di Torino può riconoscersi? Non vorremmo che il grattacielo proposto fosse l’emblema di scelte dettate soltanto da una visione economicista che ha sempre le gambe corte e alla fine si ritorce contro la maggioranza dei cittadini. Non vorremo che il miraggio di nuovi posti di lavoro nascondesse una semplice speculazione immobiliare e i posti si riducessero ad una provvisoria campagna di immagine che nulla ha a che vedere con le esigenze reali delle persone, dei lavoratori della città.

Il grattacielo come innovazione.

Forse non sarebbe il caso di inoltrarsi su questo tema che rischia appunto di diventare “ideologico”, soprattutto per chi pensa all’innovazione come ad un credo in sè positivo, sempre. Tuttavia bisogna dire che attualmente il grattacielo non è espressione di innovazione tecnologica: i grattaceli si costruiscono da circa 150 anni a questa parte. L’Empire State Building a New York è stato realizzato circa 70 anni fa ed è alto il doppio dell’attuale progetto di Piano. Dal punto di vista della sostenibilità ambientale è un assurdo portare a 180 metri persone, acqua, luce, riscaldamento, raffrescamento, tuttavia le soluzioni proposte, come i pannelli fotovoltaici in grado di coprire i costi di illuminazione notturna e una serie di accorgimenti per sfruttare l’energia passiva dell’edificio, possono ridurre l’impatto ambientale di un edificio alto. Si tratta di soluzioni ormai largamente sperimentate, in grado di rendere anche totalmente autosufficiente dal punto di vista energetico un edificio tradizionale, ma totalmente inadeguate per raggiungere gli stessi obiettivi in un grattacielo.

Se al tempo di Antonelli avessero sollevato queste polemiche non avremmo la Mole…

Al tempo di Antonelli la tecnica costruttiva vedeva nell’edificio alto una sfida ancora da compiere. L’architetto torinese, attraverso una serie di sotterfugi nei confronti degli organi di controllo, porta all’estremo l’uso della costruzione in laterizio realizzando la più alta opera in muratura tradizionale mai realizzata dall’uomo! Qui si propone di fare una modesta opera, in termini di altezza assoluta (ormai l’obiettivo posto ai costruttori di grattacieli sono i cinquecento metri e oltre!) e, come si è detto, tecnologicamente superata. La mole è uno straordinario documento di una conquista storica, l’opera di Piano è una buona architettura legata al passato, già sviluppata dall’architetto in analoghe opere a New York e a Londra, che potrebbe trovare il suo spazio in un adeguato contesto, non nel centro di Torino.

Tutte le grandi città hanno i grattacieli perchè Torino no?

Ci sono città che storicamente hanno scelto uno sviluppo basato sul grattacielo: soprattutto nel nord America Chicago e New York hanno costruito paesaggi di grande fascino, ma lo sviluppo in verticale è stato adottato anche da grandi città di tutto il mondo: in america del Sud, in Africa, in Asia. In Europa la presenza di centri storici e di una cultura legata alla tradizione e alla qualità dei luoghi, ha generalmente portato ad evitare di costruire i grattacieli nei centri urbani. A Parigi si è destinata un’area apposita esterna (la Defence), in altri casi si sono identificate aree specifiche, come la City di Londra, o la ricostruita Potsdamer platz di Berlino. In alcuni casi, come a Monaco, la popolazione non ha voluto i grattacieli e li ha respinti con vere e proprie mobilitazioni popolari. Non c’è niente di male nel voler proteggere un’immagine e un paesaggio radicati nella storia, che costituiscono elementi di qualità. L’Italia potrebbe essere l’esempio della capacità (talvolta non adeguata) di proteggere il proprio paesaggio storico e fare di questo una ricchezza che ci è invidiata in tutto il mondo. Se si inorridisce all’idea di costruire un grattacielo nel centro di Firenze, di Venezia o di Roma perché non si dovrebbe inorridire per Torino?

Sul metodo di una scelta.

Se è vero che non si può affrontare ogni decisione che riguarda la città come in un’assemblea condominiale, è anche vero che prima di dare per definitiva una scelta di portata strategica e storica come questa, per un grattacielo di 200 metri di altezza a Porta Susa, bisognerebbe avere dati ed elementi di chiarimento. Sono state fatte delle proiezioni sugli scenari economici e sociali legati all’innalzamento dei valori delle aree? Sugli effetti di congestionamento del traffico, dei consumi energetici? Ci sono immagini asseverate dell’edificio nello sky line della città e nelle sue varie percezioni? Quali sono le altre opere previste e come si rapporteranno ad un’immagine complessiva della città? Come possono interagire i pareri delle circoscrizioni, delle associazioni, dei singoli cittadini?
Quella del grattacielo di Torino non può essere ridotta ad una lotta tra pretesi sostenitori del cambiamento e supposti sostenitori della conservazione. Sia per chi pensa che le scelte e le realizzazioni urbanistiche e architettoniche degli ultimi anni siano state prevalentementte positive, sia per chi pensa che siano state prevalentemente negative, la decisione sul progetto a Porta Susa – e tra poco quella sul progetto di Fuksas per il grattacielo della Regione - è strategica e cruciale. Va fermata perché da una parte si rischia un fatto compiuto irreversibile, dall’altra una riflessione permetterebbe di rivedere la progettazione e la localizzazione adeguandole alle esigenze dei cittadini e della tutela del patrimonio.
Per questo facciamo appello da un lato agli enti preposti alla tutela del paesaggio e agli esperti locali e nazionali, dall’altro alla consapevolezza e alla partecipazione dei cittadini per evitare, in base a un elementare principio di precauzione, un progetto insostenibile per Torino e per discutere soluzioni diverse.

Per il Comitato “Non grattiamo il cielo” di Torino
Franco Adorno, Flavia Bianchi, Ferdinando Cartella, Valeria Giacosa,Giorgio Faraggiana, Roberto Gnavi, Paolo Hutter, Guido Montanari, Maria Teresa Roli, Emilio Soave, Lino Sturiale.

Torino 31.10.2007 mail cieloditorino@libero.it